venerdì 25 aprile 2008



posto una poesia di Ahmad Fu'ad Negmi, un poeta egiziano. Un simpatico ottantenne che scrive poesie in dialetto egiziano..uno sfegatato amante dell' Egitto, la terra bruna, la splendida ragazza che tutti chiamano 'madre del mondo'.

io, nostalgica della terra bruna, ve la lascio immaginare attrverso le parole di Negmi

BAHIYYA

Preceda le nostre parole un saluto che vaga su quelli che ascoltano

insieme a noi.

Un passero piccino cinguetta parole in rima e sensate

di una terra bruna

di una luna

di una sponda, di un fiume e faluche

di compagni di un percorso difficile

di un’immagine di folla e cortei

negli occhi di una ragazza splendida

ed è questa la parola e ciò che s’intende

Egitto, madre, Bahiyya

con scialle e ghalabiyya

il tempo si è invecchiato

mentre tu sei ancora giovane

lui scorre

e tu vieni,

vieni sopra le difficoltà camminando

su di te son passate una e cento notti

e la tua sopportazione è sempre la stessa,

il tuo sorriso

sempre lo stesso

ridi al mattino e spunta.

Dopo la notte e il tramonto

sorge il sole e ti trova

meravigliosa e giovanotta

oh Bahiyya.

Le notti sono isole ed isole

con l’alta marea scompaiono

l’alba come una torcia che s’innalza

mai l’onda le copre

sulla riva sono apparse città

che hanno sempre il sole.

Metti le tue mani nelle nostre

per aiutarci

non importa quanto sia forte l’onda

con la forza di volontà, una volta, insieme

con l’insistenza la supereremo.

Egitto, madre, barca,

non importa quanto sia infuriato il mare

i tuoi contadini sono i tuoi navigatori

gridano al vento, e lui si quieta.

Quello al timone è un artigiano (professionista)

quello ai remi uno forte

e quello sull’albero della nave è colui capace di scorgere

ciò che è stato e che verrà

due nodi, e il terzo è il numero perfetto!

Cavalca l’onda infuriata

Giungi a terra ferma

meravigliosa ragazza, oh Bahiyya.

Tornino le parole al saluto

che vaga tra la compagnia qua e là,

un passero bagnato d’henne

che canta momenti di gioia

e di nuovo

getta canzoni che fanno da semi

che baciano la terra che diventa hennata

che si rallegra, s’espande e girovaga

e poi ricomincia a cantare.

Chi ha costruito l’Egitto era in principio

un pasticcere.



venerdì 18 gennaio 2008



UNA GIORNATA PARTICOLARE O UNA GIORNATA QUALUNQUE

Caldo pomeriggio invernale nel quartiere sayyeda zeinab. Quartiere cairota super affollato e colorato da scorci di vita quotidiana, popolare quanto l’amata figlia del profeata muhammad (salla aleho wa aleho salam).

Una giornata qualunque per commercianti, abitanti, e religiosi del quartiere.

tutto procede come sempre.. la folla, le vendite, le urla, i bambini, i suq,ma c’è una nota stonata nella pseudo armonia quotidiana, una ventina di camionette della polizia colme di forze dell’ordine, e svariati individui in borgese che squadrano il viso dei passanti prestando attenzione ad ogni loro movimento sospetto.

Il motivo? Una manifestazione. Kifeya torna a dire basta, basta all’inflazione, basta al presidente Mubarak, basta al silenzio, all’oppressione, al servilismo, agli americani, alla corruzione!

Dopo due anni di silenzio ieri doveva essere la grande riorganizzaziione di kifeya.

Ho deciso di andare insieme ad altre italiane e il mio amico Araby, militante del movimento.

Abbiamo girovato nel quartiere per circa un’ora attendendo il momento propizio per unirci agli altri..eh già, gli altri..dove sono gli altri? Scomparsi, avvicinati dalla polizia e portati in macchina lontano dal centro del cairo..dopo avremmo saputo che i militanti son stati portati verso il deserto.

Niente questura questa volta, niente prigione, niente interrogatori, niente botte,non servono altre informazioni sui militanti del movimento,la polizia li conosce uno per uno..più semplice individuarli e portarli via affinchè la manifestazione non abbia luogo affatto.

Una giornata particolare per me, che ho assistito ai modi subdoli degli scagnozzi del potere, che ho visto la polizia portar via in tutta calma circa 30 militanti del movimento..avevano fermato anche Araby, ma noi italiane abbiam finto di essere turiste e di non conoscere il luogo..lo hanno lasciato andare ma un poliziotto in borghese ci ha seguiti fino a quando ha avuto la certezza che stavamo andando via dal luogo stabilito per la manifestazione.

La manifestazione è saltata,il popolo non ha assistito a nulla..ha continuato la sua giornata qualunque..

noi siamo andati davanti il sindacato dei giornalisti, dopo il tramonto.. a poco a poco alcune delle persone allontanate a sayyda zeynab hanno cominciato a far ritorno.

La piccola ‘manifestazione’ ha finalmente luogo..

una cinquantina di aderenti che urlano slogan e motti contro il regime e le sue ingiustizie con un pubblico molto numeroso ma di scarso valore: centianaia di poliziotti che ascoltano con distacco le parole pronunciate dai ‘manifestanti’ ma attentissimi ad intervenire alla prima mossa falsa..

ed eccone una, una donna, avvocato e giornalista,militante sfegatata del movimento kifeya, si allontana un attimo dal luogo di ritrovo..si allontana perchè?

Per un puro bisogno naturale, ha fame..non appena prova ad oltrepassare la schiera di poliziotti innanzi il sindacato comincia l’inferno..colpi dei poliziotti e tentativi di bloccarla..i manifestanti indignati e con tutta spontaneità cominciano ad intonare un urlo: la libertà dov’è? La libertà dov’è? Liberatela!liberatela! Mi chiedevano di fotografare, mi chiedevano di avere una testimonianza dell’assurdità della situazione..

Dopo svariati minuti di caos la donna è tornata da noi, sconvolta per i modi gretti dei poliziotti..

È ormai pomeriggio inoltrato nel centro del cairo..la pseudo-manifestazione è finita tra un sospiro di sollievo e un sospiro di amarezza..ancora una volta la repressione di regime ha fatto sì che la popolazione non assistesse agli sforzi di questo esiguo gruppo di ‘matti’ che vogliono lottare per la libertà del proprio paese, di questi ‘matti’ stanchi dello schifo dittatoriale..

ho ammirato la convinzione di questi militanti anche se son convinta che kifeya mish kifeya..

kifeya non è abbastanza..è un movimento relegato ad una cerchia di intellettuali,che se la cantano e se la suonano da soli..ma d’altronde,quando la repressione è così forte in un paese come fa un’idea ‘rivoluzionaria’ a penetrare tra gli strati della popolazione?

La maggioranza,come dice qualcuno,sta.

Il popolo egiziano sta alle regole del gioco perchè si accontenta di quel poco che ha, di quel poco che il regime gentilmente gli concede.

La popolazione egiziana sta! Sta per paura, la paura di finire in prigione,di essere torturato, di perdere quel minimo salario che percepisce.

La popolazione egiziana sta, perchè la loro ignoranza li convince che in fondo,stare è conviente.

domenica 7 ottobre 2007


Istanbul, antica Costantinopoli, città doppia, da una parte l'Europa, dall'altra l'Asia. Città che vive la sua dualità non solo territorialmente ma anche culturalmente.. musulmani convinti del loro credo e 'profani' che con fermezza affermano la propria laicità. Ma istanbul non è solo doppia,è tripla,quartupla e quintupla ( se così si può dire)
Istanbul è un miscuglio.
Miscuglio di genti diverse, di idee diverse,di povertà e ricchezza estrema, miscuglio di pescatori, gente d'affari, di venditori ambulanti, di uomini adulanti, di donne dal velo coperto, di ragazze con vestiti inesistenti, di travestiti e pervertiti, di gente ospitale e frettolosa..
vivendo due mesi in questa città si ha la sensazione che la gente debba ancora trovare la sua identità, che più d'ottant'anni di laica repubblica non sia riuscita del tutto ad abbattere retaggi culturali lasciati da secoli di dominio ottomano..è una città strana, multiforme e molteplice che però trova la sua unità nella sua bellezza, in quella gola d'acqua che collega il quieto mar di marmara e il mar nero, nel bosforo, che con il suo vento sembra cancellare ogni molteplicità, restituendo alla vecchia costantinopoli la sua valenza storica e coprendola di un velo di fascino misterioso..

mercoledì 5 settembre 2007


una foto a volte basta per rendersi conto della complessità del luogo in cui passano lente e afose le tue giornate. beh...Voilà! le bambine che ho incontrato mentre perlustravo curiosa i vicoli stretti e sporchi della casbah. tutte figlie di questo popolo meticcio.

lunedì 3 settembre 2007


È lungo il viaggio. È bello guardare il paesaggio che corre aldilà del vetro sporco del finestrino. C’è solo il rumore del treno che viaggia, delle rotaie sui binari, in questo vagone che procede a sud, nel caldo e nel sole della mattina in piena. Dopo Casablanca ci sono meno fermate in piccoli villaggi, il treno sosta nei paesi di raccordo tra i vari villaggi sparsi nelle zone circostanti, le persone scendono e salgono, quasi tutti hanno il loro posto a sedere ed il treno ha trovato un suo equilibrio nel viavai sempre meno animato dei passeggeri. La luce ha già assunto un’altra intensità più si procede verso sud; la sabbia, i campi gli alberi gli arbusti le case la terra, diventano più aridi e polverosi, il marrone, il rosa, il giallo paglierino. Luce e paesaggio si riflettono a vicenda complementari. Idea di unità e di dominio del clima, della natura, sulle persone.

Mi è sembrato di passare attraverso due mondi diversi, separati, come passare attraverso una porta socchiusa, attratta dalla luce e dal profondo silenzio, e trovarmi poi in un luogo che stava lì ad aspettare, per spiegarsi davanti a me in una profonda immagine, lunghissima, infinito piano sequenza. Veramente il paesaggio è qualcosa di eccezionale, penso che il Marocco offra tantissime di queste sorprese, la sua natura è capace di stupirti girando l’angolo. Il viaggio prosegue attraverso terreni aridi, pietrosi, polverosi, colline rossicce di rena uniforme, i colori sfumano nelle lunghe distanze, impercettibilmente per me che credo di essere daltonica. Il cielo possente cade dall’alto con tutta la sua intensità senza macchia di nuvola, sembra sospeso nel calore della luce.

E così si susseguono colline a vallate di terra nuda, talvolta solcate da un sentiero sterrato per le macchine che si scassano a percorrerlo, un casottino sorto nel bel mezzo di questo nulla, poi un deserto abitato da fiori bianchi e neri di sacchetti di plastica, centinaia di migliaia di buste di plastica abbandonate, aggrovigliate all’erba secca, ai sassi, volate strappate bruciate scolorite; ma che ci fa tutta questa plastica in mezzo a questo niente?! Puntini bianchi e neri nei miei occhi, evocano l’avvicinamento alla umana civiltà! Tra poco lunghi alberi spelacchiati che mi sembran pini e altri alberelli abbarbicati tra una roccia e l’altra ci ricorderanno che la meta è la città, e non è neanche troppo lontana.

Fa caldo nel treno, il sole ha riscaldato gli ambienti, e si avvicina il mezzogiorno. Nel mio scompartimento è arrivata una donna con un bambino. Non sembrerebbe la madre, forse più una zia od una nonna, sembra anziana e il bambino è piccolo, due tre anni. Che carino si è addormentato di fianco a me. La donna lo ha lasciato sul sedile e si è seduta di fronte, ha allungato le gambe davanti e con-tiene il bambino tra i suoi piedi; mi lancia qualche occhiata neanche troppo discreta, curiosa, mentre io ammiro il bambino e sorrido. Una mosca continua a girargli attorno agli occhi chiusi, alla bocca aperta. Anche la donna ha i suoi bagagli intrappolati nelle buste di plastica. Gli offro una banana, col caldo che fa, lei ne dà metà al bambino e nasconde la buccia sotto il sedile.

La stazione di Marrakesh è piccola, ci sono dei lavori in corso per il suo ampliamento e ammodernamento, il cantiere è avvolto nascosto in enormi cartelloni pubblicitari autocelebrativi sulle grandi opere di ricostruzione in corso. Ho saputo che sono in atto sei grandi progetti architettonici distribuiti in diverse città e regioni del Marocco; si tratta, a quanto ho capito, di “grandi opere” spesso finanziate dai paesi del Golfo i quali hanno interesse ad investire nelle capacità economiche di un paese così amato dagli stessi arabi per le sue attrattive turistiche (e non solo). Sono ambiziosi progetti spacciati per interventi governativi volti ad uno sviluppo economico e logistico del paese, ma che in realtà sono in mano alle imprese private dei magnati del Golfo. Tuttavia tutti i marocchini sembrano contenti di queste fantomatiche sei grandi opere, che sembrano procedere in fretta, e che a loro dire porteranno un sacco di lavoro ai cittadini. Certo, questo è un bene. La disoccupazione, soprattutto giovanile, è una piaga tremenda in Marocco, moltissimi giovani marocchini campano alla giornata con lavoretti saltuari e mal pagati, barcamenandosi tra uno zio commerciante ed un vicino manovale. Ma anche la consistente fetta di persone qualificate, che possiedono titoli di studio, lauree, specializzazioni, fa fatica a trovare un lavoro, un posticino degno del titolo guadagnato in anni di studio investiti all’università. Posso dire che un giorno sì ed un giorno no a Rabat, davanti all’edificio del parlamento in via Mohammed V, proprio di fronte allo chicchissimo hotel Balima, si riuniscono gruppi sempre ben consistenti di giovani laureati, diplomati, qualificati, DISOCCUPATI, a manifestare la loro protesta, l’impossibilità di avere un lavoro statale, un posto pubblico, di poter lavorare regolarmente secondo la legge e i loro diritti, lamentando un sistema che funziona su cariche e posti di lavoro assegnati grazie a raccomandazioni, conoscenze, bustarelle. Tutto il mondo è paese. Ed il Marocco è un paese abbastanza grande, densamente popolato nelle città soprattutto da giovani, promettenti per il futuro di una nazione in evoluzione, in marcia, in cambiamento, influenzabili, aperti, e tutto ciò credo sia una grande forza, probabilmente esposta anche ad un grande rischio. Come per molti paesi in via di sviluppo. Beh, proprio il mio secondo giorno a Rabat ho avuto la fortuna di incappare in una di queste manifestazioni di shabab al mu’attalin, e di scambiare due parole con una ragazza lì in mezzo. Presenze maschili e femminili si equiparavano tra la folla. Slogan e striscioni si sollevavano di fronte al rosso edificio del Parlamento, protetto da una riga scomposta di solo una decina di soldati, giovani, in guardia. Cori e canzoni sotto il sole tenue del pomeriggio, sotto gli occhi spettatori un po’ annoiati un po’ curiosi un po’ beffeggiatori dei clienti del bar del Balima, seduti all’ombra dei frondosi alberi della terrazza a sorseggiare cafè casè. Le chiacchere oziose del bar, gli slogan intonati dei manifestanti, gli occhi vigili dei soldati, il silenzio di un edificio che pare vuoto, abitato dai fantasmi.

Così alcuni, come la mia amica Mariam dell’università, davanti all’enorme cantiere sul fiume Bu Raqraq tra Salè e Rabat, si chiedono quanto valga al paese offrire un lavoro magari sì fisso, come muratore, cameriere, giardiniere, controllore della metropolitana a quanti, 1000, 2000 marocchini qualificati -magari ma anche no-, assunti pur sempre da compagnie straniere, da imprenditori stranieri per aziende straniere, profitti esteri, interessi non pubblici ma privati. Insomma, una manodopera non qualificata sacrificata al turismo e agli interessi di chi possiede gli alberghi, i ristoranti i centri commerciali già prima che sorgano sul nuovo suolo super moderno e super tecnologico, e che non permetterà al paese, quello vero, di godere della ricchezza portata da tali opere. Non sarebbe meglio investire nei settori pubblici? E nell’istruzione, nella formazione di personale qualificato e di attività, produzioni nazionali che non siano solo il turismo e il cinema? Insomma, in qualcosa che ci permetta di dimostrare quello che valiamo e che possiamo rendere per il nostro paese, nei termini delle nostre qualifiche, conoscenze, abilità?! Perché devo emigrare, se voglio lavorare per lo sviluppo del mio paese? Io voglio restare qui, a lavorare, e a vivere.

Anche Mariam pensa al suo futuro dopo l’università, pensa al suo paese. Pensa a tante cose mentre guarda l’oceano davanti a sé, mentre la luce che si riflette sull’acqua le inonda gli occhi scuri, e sorride.

Certo la stazione d Marrakesh ha bisogno di una ristrutturatina, per accogliere le marmaglie di turisti che arrivano ogni giorno.

martedì 7 agosto 2007

primo viaggio. marocco marzo 2007


Sono solo tre giorni che mi trovo a Rabat, dal mio arrivo in marocco, che già vengo dirottata a marrakesh, a sud. All’agence marocaine de cooperation internationalle mi dicono che era previsto che la mia borsa di studio si svolgesse a marrakesh, e non a rabat, come invece mi avevano detto all’ambasciata marocchina a roma. Ma non si preoccupi signorina, se preferisce restare a rabat non c’è problema, possiamo facilmente cambiare le carte e registrare il cambio di assegnazione iscrivendola qui, all’università della capitale. Il n’y a pas de problem. Perché, non le piace marrakesh? L’ha visitata? È una città bellissima, c’è tutto, turismo, divertimento, la piazza djama al-fna è tra le più belle del marocco. È famosa marrakesh lo sa?
Certo che lo so, ma mi ero quasi abituata a Rabat, al suo vento d’oceano.
Le consiglio di farsi un giro a marrakesh, vada lì a vedere l’università se le piace, ne potrà approfittare per visitare la città e godere delle sue bellezze. A quel punto potrà scegliere se rimanere qui o trasferirsi a marrakesh. Il n’y a pas de problem.
Va bene, andrò. Arrivederci.

Il treno arriva puntuale da Tangeri, estrema punta nord della linea ferroviaria marocchina, e parte puntuale dal binario due, diretto a marrakesh, ultima stazione a sud, dopo la quale i binari sono interrotti e gli spostamenti avvengono tramite altri mezzi di trasporto. Mi piacciono i treni marocchini. Sono puntuali e sembrano puliti. I sedili sono in pelle, lucida e rossa arancione nelle carrozze a scompartimenti separati, azzurrina o gialla nei vagoni comuni, dove i sedili sono sistemati uno di fronte all’altro a gruppi di due. Il viaggio inizia, pochi passeggeri ancora, ma presto il treno si riempie, alla stazione di rabat agdal prima, dove uomini in giacca e cravatta salgono e silenziosi e composti si siedono dopo aver sistemato valigetta e cartelline sui porta bagagli sopra le loro teste, una volta sistemati sfilano da sotto il braccio un qualche quotidiano che iniziano a sfogliare, comodi nei loro larghi sedili e nella propria eleganza. Alla stazione di Casa Voyageurs, o dar al-baida al musafirin, poi, il treno si riempie di nuovo, e i corpi si muovono da un vagone all’altro fino alla stazione principale di Casablanca, dove una seconda ondata di persone affluisce sul treno e si mescola ai meno recenti nuovi passeggeri, tutti insieme alla ricerca di un posto. Solo dopo una decina di minuti buoni, vari spostamenti, voci, richiami, e separazioni familiari, tutti hanno trovato un posto dove sedersi, e solo uno o due ragazzi si scorgono in fondo al vagone, rimasti in piedi vicino ai bagni, nella zona di passaggio da una carrozza all’altra. Solo ora il treno sembra pronto per il viaggio. I viaggiatori saliti a Casablanca, sono tutti diversi, più particolari. Ancora uomini in completo, giovani ragazze in tailleur, vestitini, giovani vestiti alla moda, capelli neri bagnati e ingelatinati, donne velate in gellaba azzurre, accompagnate da bambini/e, bagagli pesanti e ingombranti, giovani uomini con pochi baffi e pochi denti, magri, alti, occhi neri fulminanti, operai giovani e vecchi con poco bagaglio, anziane dal volto scuro e corrugato, piccoli occhi azzurrini luminosi tra il velo morbido e di colore tenue e la gellaba ampia, decorata, accompagnate da mariti alti nonostante il peso delle vecchie ossa, o da figlie sorelle nipoti, intere generazioni di femmine. Dopo il trambusto iniziale della caccia al posto libero, quando tutti son sistemati, un silenzio di qualche minuto accompagna gli sguardi di ricognizione dell’ambiente, graduale familiarizzazione con il luogo, i propri vicini, e acquisizione di coscienza della propria presenza, qui, intera, sana e salva. Ognuno è entrato in possesso della propria presenza, ora si può riprendere la conversazione da dove la si era lasciata, oppure iniziarne una nuova.
Nel mio scompartimento è arrivata una famiglia, un uomo anziano con sua moglie, e quelli che in un primo momento mi sembrano i due giovani figli. Tutti i loro movimenti iniziali sono mirati a far sedere comodamente la vecchia madre, minuta, muta nella sua gellaba nera decorata con i fili azzurri e arancioni, vecchia gellaba consumata indossata da anni, zitta zitta si lascia guidare dal figlio, il quale la siede vicino al finestrino, poco lontana da me. Lo spazio tra noi lo occupa il padre, anch’egli minuto, curvo, in una larga gellaba arancione di stoffa grezza, pesante, piccola testa scura coperta da un cappellino marrone spelacchiato, si siede appoggia il bastone tra le gambe fermandolo tra i piedi intrappolati nei sandali di cuoio scuro. I figli sistemano i pesanti bagagli sui ripiani, borse di stoffa legate assieme da corde e enormi buste di plastica con le cerniere scucite. Poi tutti sudati si voltano, si siedono di fronte ai genitori, si sistemano, sospirano, e si accorgono di me e degli altri passeggeri dello scompartimento. Occhiata di presentazione. Buongiorno. Eccoci.

domenica 5 agosto 2007

Letture algerine...

E poi oltre tutta la poesia che puoi scoprire, oltre lo sguardo affascinato del viaggiatore, ti accorgi che ci sono cose che ancora non vanno. Non mi hanno fatto subito impressione i numerosi barrages piazzati in mezzo alle strade poco prima del tramonto. Mentre ti avvicini ai posti di blocco rallenti, speengi i fari, accendi la lucetta all'interno della macchina e aspetti un segno da parte del poliziotto per proseguire. Per rientrare da Tipaza abbiamo impiegato quattro ore...normalmente ce ne vuole una...certo era venerdi' e le strade erano piene di gente che rientrava dalla spiaggia...ma il grosso della coda si creva a causa dei (o meglio grazie ai...) posti di blocco. Mi faceva "sorridere" incontrare per strada uomini con la barba tinta di henné e con gli occhi ornati dal kohol...Poi pian piano abbandoni l'incanto di chi osserva un mondo nuovo, con occhi purtroppo ancora sporchi di "orientalismo"...magari cominci a fare domande e a leggere storie che raccontano di un periodo buio, folle, brutale. Provi a immaginare il coprifuoco o il panico che ti deve cogliere nel momento in cui ti accorgi di esserti fermato a un finto barrage. Chiudi gli occhi di fronte all'immagine di un intero villaggio massaccrato. Dieci anni di guerra civile, dieci anni in cui è stato toccato il fondo, dieci anni in cui la situazione è completamente degenerata...
Finito il libro da due giorni cerco di riordinare i pensieri. Una lettura che forse vale più di tanti resoconti storici, comunque un libro ben scritto, stile ferrato che non ti lascia alzare gli occhi dalla pagina. "A quoi revent les loups" di Yasmina Khadra...sicuramente tradotto anche in italiano.